ESCHILO

Uno dei più grandi tragici greci, Eschilo, il più antico di tutti e tre, Eschilo, Sofocle ed Euripide, vive  ancora nel momento in cui il pensiero arcaico era in fieri, era in divenire; di Eschilo ci restano sette tragedie. Perché non narrare, con un linguaggio contemporaneo, astratto, fatto solo di quadrati e rettangoli tutto ciò che c'era in Eschilo? In Eschilo cosa c'è? Nelle sette tragedie che ci sono rimaste c'è tutto ciò che riguarda l'esistere dell'uomo, tutti i sentimenti, tutte le passioni, tutte le bassezze, tutti gli eroismi, quello che siamo noi, sempre, costantemente; ed ecco che allora è nato il ciclo su Eschilo: sette grandi tavole, ognuna dedicata a una tragedia di Eschilo.

                                                                                                               Roberto Demarchi

 

 

I Persiani

I Persiani viene rappresentata per la prima volta nel 472 a.C. ad Atene. È in assoluto la più antica opera teatrale che ci sia pervenuta.

 

I Persiani
I Persiani

La tragedia è ambientata a Susa, la residenza del re di Persia, dove Atossa, madre del regnante Serse, ed i dignitari di corte attendono con ansia l'esito della battaglia di Salamina (480 a.C.).

In un'atmosfera cupa e colma di presagi funesti, la regina racconta un sogno angoscioso fatto quella notte. Poco dopo arriva un messaggero, che porta l'annuncio della totale disfatta dei Persiani. La battaglia viene raccontata accuratamente, dapprima con la descrizione delle flotte, poi con l'analisi della fasi dello scontro e infine con il quadro desolante delle navi distrutte in mare e dei soldati superstiti privi di aiuto.

Lamenti e pianti riempiono la scena fino alla comparsa del defunto padre di Serse, Dario, marito di Atossa. Lo spettro dà una spiegazione etica alla disfatta militare, giudicandola la giusta punizione per la hybris (tracotanza) di cui si è macchiato il figlio, nell'aver osato cercare di conquistare il Mar Egeo con la sua flotta.

Arriva infine il diretto interessato, lo stesso re Serse, sconfitto e distrutto, che unisce il proprio lamento di disperazione a quello del coro, in un canto luttuoso che chiude la tragedia.

 

 

I sette contro Tebe

« Capo contro capo, fratello contro fratello, nemico contro nemico »

(Eteocle prima dello scontro con Polinice, vv. 674-675)

Sette contro Tebe
Sette contro Tebe

I sette contro Tebe, o I sette a Tebe, viene rappresentata per la prima volta ad Atene alle Grandi Dionisie del 467 a.C.. L'opera si inserisce all'interno del cosiddetto ciclo tebano, la storia mitologica della città di Tebe, ed è la terza ed ultima parte di una trilogia legata. La prima e seconda parte della trilogia, le tragedie Laio ed Edipo, sono andate perdute. Alla fine della trilogia venne inoltre messo in scena il dramma satiresco Sfinge, anch’esso perduto.

Eteocle e Polinice, figli di Edipo, si erano accordati per spartirsi il potere sulla città di Tebe; avrebbero regnato un anno a testa, alternandosi sul trono. Eteocle tuttavia allo scadere del proprio anno non aveva voluto lasciare il proprio posto, sicché Polinice, con l’appoggio del re di Argo Adrasto, aveva dichiarato guerra al proprio fratello ed alla propria patria. Nel duello finale entrambi i fratelli muoiono.

 

 

Le Supplici

Le supplici è una tragedia che faceva parte di una trilogia tragica comprendente anche Gli egizi e Le Danaidi, più il dramma satiresco Amimone (tali opere sono però andate perdute). La tragedia fu probabilmente rappresentata nel 463 a.C.

Le supplici
Le supplici

La vicenda delle cinquanta figlie di Danao, fuggitive per evitare un forzato matrimonio, è una saga che si perde nella notte dei tempi. I cinquanta quadrati bianchi, feriti dal dolore e dalla paura, sono le Danaidi, assolute protagoniste della scena tra il verde accogliente ma sofferto, metafora del re Pelasgo che le ospita e, in alto, l'insondabile

e misterioso volere di Zeus.

Solo abbandonandosi al mistero di Zeus l'uomo può soppportare gli imprevedibili e talora atroci accadimenti del mondo (le Danaidi alla fine dovranno sposare i loro pretendenti e, tranne una, uccideranno il loro marito) e "scendere nella profondità luminosa del pensiero che salva" 

 

 

 

Orestea

« Sotto i veli, piango per le sorti vane dei miei signori, raggelata da occulto dolore. »

 (Coefore, vv. 81-83)

 

L’Orestea è una trilogia formata dalle tragedie Agamennone, Le Eumenidi, Le Coefore e seguita dal dramma satiresco Proteo, andato perduto, con cui Eschilo vinse nel 458 a.C. le Grandi Dionisie. Delle trilogie di tutto il teatro greco classico, è l'unica che sia sopravvissuta per intero.

Le tragedie che la compongono rappresentano un’unica storia suddivisa in tre episodi, le cui radici affondano nella tradizione mitica dell’antica Grecia: l’assassinio di Agamennone da parte della moglie Clitennestra, la vendetta del loro figlio Oreste che uccide la madre, la persecuzione del matricida da parte delle Erinni e la sua assoluzione finale ad opera del tribunale dell’Aeropago.

 

Agamennone
Agamennone

Agamennone, sovrano della polis di Argo, alla partenza per la guerra di Troia, non aveva venti favorevoli, così per propiziarsi gli dei (in particolare Artemide che gli era ostile), su consiglio dell’indovino Calcante aveva sacrificato la figlia Ifigenia, di bellezza eccezionale. I venti allora avevano cominciato ad essere propizi, sicché la flotta aveva potuto alzare le vele. Clitennestra aveva però deciso di vendicare il sacrificio della figlia, convincendo Egisto, cugino del marito e suo amante, ad aiutarla in tale impresa.

La prima tragedia narra quindi come Agamennone, di ritorno dalla guerra, venga ucciso a colpi di scure dalla moglie Clitennestra, con l'aiuto di Egisto.

Demarchi vuole rappresentare la rocca di Argo con la materia bianca di fondo che richiama le rocce bruciate dal sole del mediterraneo. Sulla sinistra si vede ascendere verso il cielo il fantasma delle bella Ifigenia, sulla destra un grande quadrato che in parte incide sulla scena centrale e in parte ne è estromesso, richiamo alle capacità profetiche non ascoltate di Cassandra. E al centro campeggia Clitennestra che come una falce di sangue si abbatte su un inerme e orizzontale Agamennone.

 

Coefore
Coefore

La seconda tragedia prende il nome dalle coefore, le portatrici di libagioni per i morti, che si recano sulla tomba di Agamennone. È il racconto di come Oreste, dieci anni dopo l’omicidio del padre Agamennone, torni ad Argo e, su ordine di Apollo, porti a compimento la propria vendetta dando la morte alla propria madre ed al suo amante. Le due figure bianche nell'opera alludono all'incontro fra Oreste e la sorella Elettra, al patto d'intesa fra i due e al loro comune destino.

 

Le Eumenidi
Le Eumenidi

 “Le Eumenidi” è la tragedia della riconciliazione.

Oreste, inseguito dalle terribili Erinni che reclamano la punizione per il matricidio, giunge ad Atene ove l’Aeropago riunito per il giudizio, nonostante la decisa difesa di Apollo che ha sempre protetto Oreste, resta spaccato in due.

L’intervento di Atena fa pendere l’ago della bilancia in favore di Oreste che viene assolto e le Erinni, condotte nella loro nuova dimora sotto le pendici dell’Acropoli, si trasformeranno da implacabili esattrici della vendetta in Eumenidi, parola che, appunto, significa “Benevole”.

Eschilo ci dice che una nuova ragione, attraverso l’aureo intervento di Atena, va soppiantando la spietata necessità della tradizione e del mito per preparare l’uomo alla riconciliazione con il suo esistere e con il destino.

 

La trattazione pittorica di questa tragedia eschilea:

L'opera è perfettamente bilanciata e simmetrica, a voler richiamare in modo sottile e però potente la presenza della Dea della Giustizia, Atena, e anche di una bilancia (attributo costante della Giustizia nell'iconografia occidentale). 

Geniale è il mezzo con cui Demarchi racconta la trasformazione delle Erinni in Eumenidi: per entrambe usa due rettangoli viola di medesime dimensioni e che occupano  due posizioni estremamente bilanciate fra loro ai lati della tavola. Sembra che si riflettano in uno specchio, ma c'è una grande ed essenziale differenza fra i due, perché il rettangolo sulla sinistra che rappresenta le dee della discordia è trattato con una materia leggermente in rilievo che esprime tormento, mentre il rettangolo che rappresenta le "Benevole" è uno placido e calmo lago di uniforme viola.

Atena viene a mostrarsi attraverso un altro rettangolo, questa volta verticale e dorato. Occupa la scena centrale e lascia dietro di se una scia, che indica la sua provenienza dal cielo.

L'aeropago spaccato in due ricorda attraverso il bianco screpolato le rovine di un tempio greco.


 

Prometeo incatenato

« Guardate il dio incatenato e doloroso, il nemico di Zeus, il detestato da tutti gli dei, perché amò i mortali oltre misura »

(Prometeo incatenato, Eschilo)

 

La data di rappresentazione è incerta, si ipotizza il 460 a.C. circa. L'opera faceva parte di una trilogia dedicata a Prometeo, di cui le altre parti non sono conosciute se non in forma di frammenti (Prometeo liberato e Prometeo portatore del fuoco). È altresì incerto l’ordine delle tre tragedie, poiché è ignoto se il Portatore del fuoco fosse la prima o la terza parte.

Prometeo incatenato
Prometeo incatenato

Dopo la rivolta di Zeus contro il padre Crono, e la guerra che ne segue, Zeus si insedia al potere e annienta i suoi oppositori. Prometeo, per aver donato il fuoco agli uomini, subisce la sua collera e viene incatenato ad una roccia ai confini della Terra. Il dramma, interamente statico, mette in scena Prometeo di fronte a diversi personaggi divini, senza mai presentare un confronto diretto tra Zeus e il titano.