Scrive il Prof. Antonio Paolucci

C’è una linea riconoscibile che attraversa tutta intera la storia della pittura italiana. A volte si inabissa come un fiume carsico per poi riemergere in gloria e splendore. Comincia con Giotto “spazioso” – la scoperta del vero nella certezza dell’universo misurabile – continua con Piero della Francesca e con la visione prospettica rinascimentale, tocca il culmine con il “divino” Raffaello, attraversa l’età del Barocco con il “bello ideale di Annibale Caracci, di Domenichino e di Guido Reni, arriva fino al Novecento di Carrà e di Morandi, di Burri e di Fontana. E’ la linea che altri hanno chiamato della “classicità”. Forse potremmo meglio definirla la linea della ricerca (e poi della intuizione e della rappresentazione), dell’ordine insieme razionale e poetico che governa il mondo visibile. Di questa tendenza stilistica riflessiva e speculativa, fondata sulla felicità del ritmo e delle proporzioni, sulla appagata filosofica contemplazione della natura delle cose, partecipa Roberto Demarchi, torinese.

 

 

Scrive il Prof. Claudio Strinati

Roberto Demarchi è un pittore del tutto particolare nel panorama artistico italiano della nostra epoca. La sua arte scaturisce da meditate premesse di ordine storico e filosofico tradotte in un linguaggio pittorico peculiare e difficilmente inquadrabile nelle grandi tendenze del contemporaneo.

Lo si potrebbe certo collegare al filone astratto-informale essendo la sua arte rigorosamente aniconica, eppure le sue opere sono sempre “rappresentazioni” di contenuti precisi. E’ sostanzialmente inventore di un sistema iconografico non figurativo, ma pur gravido di profondi e complessi significati.

Demarchi, in altri termini, è un ricercatore dell’essenziale e proprio in questo risiede il fascino unico della sua arte.

Malgrado le opere nascano da un arduo rovello intellettuale, il risultato va nella riduzione di una apparente semplicità assoluta, quasi che il pittore si muova da premesse ascetiche dove l’opera d’arte è depurata di ogni edonismo pur avendo quale proprio fine imprescindibile l’antica e intramontabile idea della bellezza quale armonia. Il maestro stesso ha voluto, del resto, vincolare se stesso alla formulazione di una gamma limitata di immagini che compongono e ricompongono determinate serie secondo un ritmo incessantemente diverso, ma pur intimamente coerente all’interno della serie stessa da lui creata.

C’è una radice profondamente religiosa del suo lavoro che lo induce a impostare delle solenni sequenze dove le opere si manifestano come altrettante epifanie.

[…] rifulge il principio sovrano che da anni guida il suo operato, quello di rappresentare le storie e i concetti senza rappresentare altro che le metamorfosi delle forme che egli stesso ha inventato, sottraendosi a qualunque ipotesi di naturalismo diretto ed esplicito, ma recuperando la verità del racconto attraverso lente e delicate mutazioni dentro le sue strutture visive.

Ne emerge un’alta lezione di stile e un’esperienza che ha pochi confronti con altre pur interessanti esperienze del nuovo millennio di cui l’arte del Demarchi appare valida e illuminante testimonianza.